Questa doveva essere una newsletter leggera, la mia edizione di mezza stagione prevede la segnalazione di pochi link, eventi, libri selezionati, una suggestione sul mondo della comunicazione visiva. Avevo già raccolto le idee su cosa raccontare.
Ma in questi giorni che la scrivo ho capito che non potevo mandarvela, non ora in cui mi sto chiedendo qual è la funzione delle immagini e della comunicazione visiva in un periodo di guerre, conflitti armati affrontati come fosse il secolo corso, ma con le possibilità comunicative del 2023.
Ne avevo già parlato un anno e mezzo fa, in questa edizione, in cui mi chiedevo:
Come possono integrarsi contenuti di questo genere (racconti di guerra) con i meccanismi della viralità, con gli algoritmi delle piattaforme, con le sovrapposizioni narrative di creator tutti messi in sequenza in un feed unico?
Come possiamo usufruire noi di questi contenuti, senza farci travolgere e avendo la capacità di distinguere cosa sia informazione, cosa invece propaganda se non quando fake-news?
Quali reazioni suscitano in noi?
E come ci poniamo noi stessi in qualità di creatori di contenuti sui social, nei blog e nelle chat di WhatsApp e Telegram? Perché questo siamo, nel momento in cui schiacciamo il pulsante pubblica su un post appena scritto.
Allora non avevo risposte, e anche oggi ne ho molte poche, ma il mondo della comunicazione visiva nel frattempo ha subito un cambiamento ulteriore: l’accesso in modo facile e gratuito all’intelligenza artificiale generativa ci sta ponendo di fronte ad immagini sempre più visivamente reali (praticamente fotografiche), ma in realtà finte, rappresentanti visioni non esistenti.
Se vi cito l’immagine della bambina dai tratti asiatici che corre verso la macchina fotografica completamente nuda, terrorizzata, con altri bambini attorno, e alle spalle dei soldati ed in lontananza un fumo nero: è l’8 giugno 1972 e siamo in Vietnam, e quella è un’immagine di guerra. Soprattutto questa è un’immagine che è divenuta un’icona del fotogiornalismo, scattata da Nick Ut, un fotoreporter sudvietnamita dell’Associated Press in un villaggio non lontano da Saigon. La bambina era stata appena ustionata da un bombardamento al napalm dell’aviazione del Vietnam del Sud.
Internazionale si chiede: “Nel giro di pochi giorni la foto fece il giro del mondo, sconvolgendo l’opinione pubblica internazionale sul conflitto in Vietnam al punto da essere, secondo molti, decisiva per spingere Washington a mettere fine alla guerra. Ma è andata davvero così?” E ci propone un video del giornale Le Monde in cui si analizza quell’immagine, e ci racconta la visualizzazione della guerra dai quadri del passato, in cui la visualizzazione era idealizzata. Un’immagine che se non ha cambiato l’esito di una guerra, ha però impresso la memoria di tutti noi.
E qualche decennio prima, durante la II Guerra Mondiale, il fotografo Robert Capa ritraeva gli sforzi bellici dei soldati durante lo sbarco in Normandia nel 1944. Sforzi militari in cui si cercava il supporto della popolazione oltreoceano ad incitare l’impegno bellico. Sforzo il cui risultato ho visto quest’estate, nel museo e sui campi pieni di croci nel cimitero a Colleville-sur-Mer.
Ma le vittime civili, nelle sue foto, dove erano? C’erano?
Entrano nelle immagini di guerra solo successivamente, i civili loro malgrado diventano immagini simboliche, fino ad arrivare ad oggi, dove forse sono quasi la sola testimonianza di ciò che significa guerra (ormai non ci interessa molto vedere un missile in aria; o piuttosto, quanto ci coinvolge vedere l’esplosione accecante su un territorio di notte?)
Queste immagini oggi sono le protagoniste delle guerre, dei conflitti degli ultimi anni e anche di quello che si sta combattendo in questi giorni nella Striscia di Gaza (e in Cisgiordania): sono immagini usate con uno scopo non solo oggettivo, anche perché è difficile documentare un conflitto quando la stampa estera non è autorizzata ad entrare all’interno di un territorio, per volere di Israele e dell’Egitto.
Chi sta fotografando questo conflitto, che è una guerra delle immagini?
Come ci raccontano Elena Boille (vicedirettrice di Internazionale) e Melissa Jollivet (Photoeditor della stessa rivista) in questa puntata del podcast Il Mondo del 13 novembre (che vi consiglio di ascoltare): “Gli occhi del mondo sono un vantaggio strategico, un mezzo di finanziamento e di pressione. Lo sanno gli Israeliani e lo sa anche Hamas”. Solo chi era già all’interno della Striscia, o le truppe di Israele entrate nei gironi scorsi, stanno raccontando quello che avviene. E le immagini trasmesse nelle tv degli stati esteri non sono le stesse.
“Le due parti non vedono la stessa guerra; non vediamo tutti le stesse immagini”
Ora sembra che non ci basti più vedere le immagini reali. Non ci basta vedere i video e le foto dei pochi giornalisti rimasti a Gaza che stanno testimoniando le distruzioni dei bombardamenti, la ricerca tra le macerie dei crateri nel campo rifugiati di Jabalia, il dolore straziante di chi rimane a cullare il proprio bimbo dentro un lenzuolo bianco, come ci racconta eye.on.plestine (questo è un profilo Instagram che pubblica regolarmente immagini e video dalla Striscia; avviso che le immagini pubblicate sono caratterizzate dall’avviso “video/foto sensibili”), nei giorni in cui nessun altro giornalista può entrare in quel territorio a raccontare cosa sta succedendo (come ci racconta Francesca Mannocchi in questa puntata del podcast Globo).
È propaganda? Sto guardando immagini reali? Sto formando il mio pensiero dopo la vista di questi video?
Ho provato a rispondere a queste domande:
1) È propaganda: può essere. “I social media fungono ormai da vere e proprie fonti primarie, ma occorre sempre comprendere il posizionamento di chi parla e racconta, verificando l’autenticità del profilo, così come la credibilità e l’accuratezza delle notizie riferite.” Ci suggerisce Nancy Porsia in questo articolo. Finchè non vengono bannate alcune fonti tramite lo shadow-ban selettivo scelto dalla piattaforma (aggiungo io), come è successo per questo ultimo conflitto.
2) Sto guardando immagini reali: credo proprio di sì. Non ne ho la certezza, ho solo i miei occhi e le sensazioni che mi suscitano, ho la ricerca di più fonti (visive e non) e la convinzione che al momento l’AI generativa non possa ancora realizzare questo tipo di video con questo livello di precisione e realtà. Quello che vedo è dolore, questo mi arriva, nel profondo degli occhi e dello stomaco, tale da farmi interrompere lo sguardo più volte.
3) Sto formando il mio pensiero dopo la vista di questi video: non credo. Avevo già un mio pensiero formato, e dal punto di vista delle notizie sto ascoltando fonti e narrazioni da giornali, giornalisti e realtà di cui ho imparato a fidarmi, che fanno un lavoro di fact checking delle notizie molto accurato. Le immagini diventano un corollario che parla al mio cuore anziché alla mia testa.
La riflessione che voglio fare con voi è più incentrata sul futuro prossimo, un domani che potrebbe essere tra qualche settimana.
La fotografa veneziana Barbara Zanon ha realizzato un bellissimo (ma falso) reportage dall’Ucraina, il progetto “Beauty is everywhere”, in cui ha chiesto a Midjourney di realizzare degli scatti fotografici di ambientazioni di distruzione post bellica con persone in primo piano. L’esperimento, presentato in mostra al Festival Informatici Senza Frontiere di Rovereto, nasce lo scopo aprire un dibattito urgente sulle potenzialità e i limiti dell’Ai.
La intervista Presa Diretta, dal minuto 53:00 della puntata del 30 ottobre, che aggiunge un tassello al discorso: se inizio ad avere dei dubbi sull’immagine che sto guardando, la mia empatia diminuisce, rischio di non fidarmi più di ciò che mi restituisce la retina su quell’immagine.
Quindi la domanda che ci viene fatta e che dovremo porci è:
Saremo ancora capaci di provare orrore davanti ad immagini di questo tipo? L’empatia che ci suscitava la bambina vietnamita che scappa nuda, possiamo riviverla oggi?
Il giornalista Emilio Mola scrive questo sul suo profilo Instagram domenica 12/11:
“Ogni giorno, ogni santo giorno arrivano da Gaza immagini atroci di bambini uccisi, mutilati, traumatizzati, bruciati, tremanti sui lettini e i pavimenti, estratti da tonnellate di macerie.
Se non per umanità – lasciamola un attimo da parte – almeno per notiziabilità dovremo avere i giornali invasi da questi video e da quelle foto. Di norma i giornali pagherebbero oro per avere simile “materiale” Perché sanno quanto pesi e quanto valga. […] Oggi i giornali di simili immagini, di “bambine del Vietnam” ne hanno a disposizione migliaia. Sono qui. Sono su Instagram. Devono solo prenderle. Perché non lo fanno? Perché non ci sono? Perché vengono ignorate? Perché vengono nascoste al pubblico? Perché i giornali derogano la loro missione? […]
Se non fosse per quei pochi giornalisti che sono sul posto e rischiano la vita ogni giorno – sono più di 40 quelli ammazzati da Israele in questo mese, nel 2022 furono 68 ma in tutto il mondo – e fa quasi strano dirlo, “se non fosse per i social”, nemmeno noi conosceremmo la reale portata di questo sterminio. […]
Quando la Russia attaccò l’Ucraina, giustamente, le immagini del massacro di Bucha erano su tutti i giornali e siti. Questo vuol ire che quando vuole, la stampa, l’orrore sa documentarlo e mostrarlo.
Quando vuole appunto. E questa volta non vuole. La domanda è: perché?”
E quindi noi spettatori, noi società, noi persone in quanto essere umani, possiamo chiederci:
Quanti filtri abbiamo, e quanti filtri avremo davanti ai nostri occhi per conoscere e capire ciò che ci sta succedendo?
I filtri di un algoritmo per i social?
Quello dell’intelligenza artificiale con cui vengono create fake-image?
Quello delle scelte editoriali dei giornali e dei media?