dal blog PENSIERI GRAFICI

Newsletter #9 – Dire – tacere

Pensieri grafici

Primavera 2022 "Dire o tacere": questa è la newsletter che ho inviato il 20 marzo 2022

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Primavera 2022 "Dire o tacere": questa è la newsletter che ho inviato il 20 marzo 2022

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Nel 2014 non sapevo nulla dell’Ucraina. Non conoscevo la sua storia, né la sua natura, né tantomeno la sua posizione geografica specifica. E ho continuato a non saperne nulla fino alla fine di febbraio 2022. E anche ora non ne conosco molto, se non le immagini che vedo apparirmi ogni giorno sui i vari mezzi di comunicazione.

Nel 2014 un fotografo italiano, invece, era in Ucraina a fotografare i civili nel Donbass, la regione in cui stava avvenendo una guerra tra i nazionalisti ucraini e i filo-separatisti russi. Quel fotografo conosceva già quel territorio, ed insieme ad altri giornalisti stava provando a raccontare un conflitto di cui a malapena sentivamo parlare in Europa.

Quel fotografo amava raccontare le persone, ritraendole in foto e registrandone le voci. Aveva fondato con un gruppo di amici un collettivo fotografico, Cesura Lab, indagando visivamente i conflitti degli ultimi anni.

Quel fotografo si chiamava Andy Rocchelli, e ho scoperto la sua storia attraverso il Podcast “La Volpe Scapigliata” di Mario Calabresi.

Andrea, detto Andy, era un ragazzo quasi mio coetaneo, la cui passione per il racconto fotografico di vita l’ha portato lì, nel Donbass, già 8 anni fa.

Andy era laureato al Politecnico di Milano (come me), con una Laurea specialistica in Design della Comunicazione (come me), e ha frequentato quei corsi (gli stessi miei corsi), in quegli stessi anni in cui anche io ero lì a studiare; si è laureato pochi mesi dopo di me. Chissà se ci siamo mai incontrati nei corridoi di Bovisa.

Andy è stato ucciso il 24 maggio 2014 in Ucraina, nel Donbass, mentre provava a raccontare le vite in mezzo e oltre ai conflitti, ed è stato colpito da granate di mortaio insieme all’amico e guida Andrej Mironov, attivista russo per i diritti umani, morto con lui in un fossato in cui stavano cercando riparo.

Andy è morto fotografando quello che stava per succedere, a se stesso, in quel fossato 8 anni fa; e fotografando un futuro che sarebbe successo 8 anni dopo, a tante persone in quel paese.

Dopo 8 anni, so leggermente qualcosa di più sull’Ucraina. Ho scoperto ad esempio i suoi confini geografici, i nomi delle sue città, ho scoperto l’interesse di Putin per quel territorio.

Li ho scoperte grazie ai racconti visivi e sonori di giornalisti, molti freelance, che per primi sono entrati in quei territori il 22 febbraio, e da allora mi raccontano la quotidianità di un conflitto che mi sembra essere di un secolo fa.

Lo fanno attraverso mezzi di comunicazioni più classici, come il reportage televisivo in presa diretta, rilanciato sui social media. Lo fanno attraverso le stories di Instagram, cercando di riassumere in pochi frammenti spezzettati di una manciata di secondi finché hanno batteria e connessione nello smartphone.

Lo fa Francesca Mannocchi, una giornalista freelance, che col caschetto e il giubbotto antiproiettile con la scritta PRESS ci manda i video che realizza giorno per giorno per diverse testate giornalistiche. Pubblica le foto di ciò che vede, è il suo sguardo lucido e vivido sui volti delle persone nella metropolitana dopo giorni di attesa, dei volti riversi di corpi che vengono portati via.

Lo fa Cecilia Sala, giovanissima giornalista, attraverso il suo podcast “Stories” di Chora, che si può ascoltare gratuitamente su tutte le piattaforme audio, in cui registra i suoni dell’assedio, della fuga da Kyiv, prova a spiegarci cosa sta succedendo in questa escalation del conflitto. Con la sua voce calma e controllata senza pietismi e senza allarmismi.
Lo fa con le stories su Instagram, con i suoi articoli e con i collegamenti per alcuni programmi televisivi.

Come dice Mario Calabresi, Cecilia Sala “sta dimostrando che esistono nuove forme di giornalismo, capaci di parlare a tutti e capaci di farsi ascoltare anche dalle generazioni che hanno perso l’abitudine di comprare i quotidiani. Un giornalismo che ti porta nelle cose, che attraverso la voce ti permette di immergerti nelle situazioni.”

Sono sguardi così reali che le loro foto sono considerate troppo sensibili per gli algoritmi di Instagram, per cui c’è un disclaimer che avvisa prima di far vedere l’immagine: del resto si sa, potrebbe urtare la vista tra un balletto nei reel ed una sponsorizzata di una crema viso.

Nel 2022 la comunicazione visiva passa dai social network, è la prima guerra su TikTok come ci racconta Il Post, passa ancora dalla televisione, dai racconti letti e ascoltati di mezzi di comunicazione nuovi: durante la Pandemia ci siamo abituati a vedere balletti nei reel di Instagram per raccontare un prodotto, un mood, a volte anche per divulgare concetti interessanti, ma pur sempre balletti sono (sì, questa cosa dei balletti mi risulta incomprensibile, fastidiosa, sto ancora cercando di comprendere la ragione della loro successo); abbiamo visto sponsorizzate mirate proprio a noi e a nostri consumi.

Ma i social media non sono solo questo: sono anche un luogo di racconti più importanti, racconti a cui è importante lasciare il giusto spazio.

Ne parla Siamomine, un blog molto interessante su tecnologia, comunicazione, lavoro creativo e culturale, nella sua newsletter Dylarama del 5 marzo, “Quando la guerra è content”, e prova a raccontarci come i conflitti siano diventati contenuti all’interno di uno spazio digitale con regole precise.

Nel 2022 in Russia, a proposito di regole, però hanno chiuso i Social Network, e allora la comunicazione passa ancora dai giornali, per come può tra le maglie di leggi che odorano di censura: ce lo fa non-vedere la responsabile della comunicazione del Novaya Gazeta, Nadia Prusenkova, con un’intervista in cui racconta come il loro giornale indipendente ha deciso di raccontare questo conflitto, per rispettare la legge che impedisce di fatto di pubblicare reportage o foto della situazione in Ucraina, senza la possibilità di citare la parola “guerra”. La scelta è stata quella di continuare a lavorare in queste condizioni, pubblicando pagine bianche, senza testo. Pagine vuote: l’assenza di comunicazione, è essa stessa comunicazione visiva. Il bianco per far vivere il contenuto, un contenuto che però non si può narrare.

E poi ci sono i designer: la comunità creativa ha provato a rappresentare i propri sentimenti, la propria visione su questa guerra, come ci racconta l’articolo di Eye on Design. E c’è un type designer ucraino, Ivan Tsanko, che un paio di settimane prima dell’invasione ha pubblicato un aggiornamento del font tipografico Otto Attack, rendendolo disponibile gratuitamente per i designer per essere utilizzato nelle “proteste grafiche”: un carattere al contempo sinuoso e spigoloso, la bellezza delle linee e la forza di un messaggio per la pace.

Nelle ultime 4 settimane ho pensato a come comportarmi con la mia comunicazione, visiva e non, in un periodo come questo. Ho deciso di fermare la mia comunicazione sui social, non pubblico più nulla dal 22 febbraio, inutile invadere il web di argomenti futili e meglio lasciare lo spazio e la banda internet alle notizie importanti. Ho deciso di non ricondividere sui social notizie e riflessioni su questa guerra, il pericolo della fake news è dietro l’angolo e illustrare sui social il mio pensiero di questa situazione è assolutamente superfluo.

Ho pensato se mandare questa newsletter, se avesse senso farlo e parlare come al solito di frugalità visive cercando di portare alla luce progetti di comunicazione e risorse come faccio ogni 3 mesi. “La vita va avanti, tu continui a lavorare” mi è stato detto.

Già, continuo a lavorare: questa newsletter primaverile era pronta da un po’, era un momento significativo per la mia comunicazione ed il mio lavoro, per il mio piano editoriale. Ma i piani vanno sempre a farsi fottere: quelli di vita, quelli di pace, figuriamoci quelli editoriali.

E così ho deciso che questo 20 marzo non avrei mandato nessuna newsletter. Non avevo in quei giorni, e non ho neppure ora, il sentimento giusto per scrivere, per parlare di me e dei miei progetti.

Fino a quando un sabato pomeriggio di qualche settimana fa ho iniziato ad ascoltare il podcast su Andy e sulla sua storia. E il suo percorso di studi, il mio percorso di studi, le parole narrate nel podcast, mi hanno ricordato che la comunicazione visiva può essere portatrice anche di un significato sociale, oltre che storico e politico (nel senso civico, e non propagandistico, del termine).

E così oggi entro nella tua mail per farti conoscere la storia di Andy e invitarti ad andare a vedere le sue fotografie: non le troverai in questa mail, che ho volutamente lasciato di solo testo, senza immagini: voglio che clicchi sul link che ti porta al suo portfolio, su quello che ti fa ascoltare la sua voce e le parole dei suoi genitori nel podcast di Mario Calabresi, che tu compia l’azione di andare ad osservare il suo lavoro nelle aree di conflitti, nelle terre in cui è arrivato, per mostrarci i bambini ammassati in un bunker del Donbass: non è una foto 8 giorni fa. È la sua foto di 8 anni fa.

Entro nella tua mail per raccontarti il lavoro di giornalisti e reporter freelance e indipendenti, che cercano di raccontarci questa guerra con immagini e mezzi contemporanei.

E questo mi ha spinto a qualche riflessione sul mondo della comunicazione.

Come possono integrarsi contenuti di questo genere con i meccanismi della viralità, con gli algoritmi delle piattaforme, con le sovrapposizioni narrative di creator tutti messi in sequenza in un feed unico?
Come possiamo usufruire noi di questi contenuti, senza farci travolgere e avendo la capacità di distinguere cosa sia informazione, cosa invece propaganda se non quando fake-news?
Quali reazioni suscitano in noi?
E come ci poniamo noi stessi in qualità di creatori di contenuti sui social, nei blog e nelle chat di WhatsApp e Telegram?
Perché questo siamo, nel momento in cui schiacciamo il pulsante pubblica su un post appena scritto.

Non ho risposte; le sto cercando.

Ma ci sono momenti in cui posso avere uno sguardo positivo sul mondo, e parlare di cose belle e amenità. Ci sarà un momento, spero a breve, in cui scrivere una newsletter normale. E tornerò a scrivere anche sui social, prima o poi, senza sapere quando.

Ed esistono altri momenti in cui per me, invece, ha più senso fermarmi a guardare, ad ascoltare chi ha cose più importanti da dire, anziché andare avanti a comunicare come se nulla fosse.

Questo momento è uno di quelli.

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Ciao, sono Erica!
Ciao, sono Erica!

Mi occupo di tutti i progetti visivi di cui hai bisogno per comunicare. In questo blog racconto il mio sguardo sul mondo, gli stimoli grafici che osservo, parlo di comunicazione visiva, di strategie, e a volte anche di aspetti più tecnici.